L'Europa è morta a Gaza
I due conflitti del secolo -Ucraina e Palestina- segnano la morte politica di Bruxelles. A cui non resta che riarmarsi fino ai denti e creare nemici immaginari per ridarsi un nuovo senso di esistere.
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Le due principali crisi internazionali che segneranno per sempre questo decennio, se non questo secolo - la guerra in Ucraina e il massacro in corso a Gaza - hanno messo a nudo la totale inconsistenza politica dell’Unione Europea, priva di autonomia decisionale e ridotta a vuota appendice della politica estera statunitense.
Nonostante la rimozione collettiva della guerra in Ucraina, passata da evento epocale che aveva trasformato quasi tutti gli italiani in esperti di geopolitica a noioso rumore di fondo che non smuove più l’interesse di nessuno, non si può pensare di analizzare quanto sta accadendo a Gaza senza tenere in considerazione quello che succede a Kiev. Parlare di “incapacità” della leadership europea nella gestione delle due crisi è oltremodo parziale, dato che il doppio standard tra Ucraina e Palestina non è un semplice errore metodologico o un problema morale, ma una strategia perfettamente coerente con la struttura delle relazioni internazionali e con la divisone del mondo in blocchi militari e sfere di influenza.
Con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, l’Unione Europea ha mostrato un inedito attivismo umanitario: pacchetti di sanzioni contro Mosca, miliardi di euro in aiuti militari e umanitari a Kiev, accoglienza incondizionata dei profughi, censura di tutti i media russi con la scusa di “combattere la propaganda” (mentre nel frattempo si rilanciava in Italia quella di Kiev: nei primi mesi del conflitto ho debunkato personalmente decine e decine di notizie clamorosamente false riportate dalla nostra stampa, copiate e incollate direttamente da “The Kyiv Independent” e altri media ucraini impegnati loro stessi in una martellante propaganda di guerra) e una mobilitazione diplomatica e mediatica senza precedenti in favore del governo ucraino.
Lo stesso governo ucraino che, sotto la guida del presidente Petro Poroshenko, si era macchiato di numerosi crimini di guerra come il bombardamento di infrastrutture civili nel Donbass e l’impiego di battaglioni paramilitari estremisti che, secondo i monitoraggi delle organizzazioni internazionali, hanno commesso le peggiori nefandezze contro dissidenti e civili. Senza contare la catastrofe umanitaria che aveva provocato il conflitto civile con i separatisti dell’Est, nei confronti dei quali Kiev aveva scelto il “pugno duro” contribuendo a causare un milione di profughi interni e migliaia di vittime civili. All’epoca, l’Unione Europea non era stata affatto così solerte nello schierarsi a difesa dei civili ucraini bombardati da Poroshenko nell’Est del paese, così come oggi fatica a solidarizzare con i palestinesi massacrati a decine di migliaia stretti in una striscia di terra da cui non c’è via di fuga. Questo perché non conta tanto il colore degli occhi e dei capelli - anche in Donbass erano biondi con gli occhi a azzurri, come d’altronde a Kiev - ma in quale squadra si gioca. Fermo restando che, comunque, il razzismo, l’islamofobia e la russofobia sono stati e sono tutt’ora elementi fondamentali nel racconto e nella percezione collettiva dei due conflitti.
Ursula Von Der Leyen, nel febbraio 2022, non si è risparmiata dal condannare i crimini del governo di Putin contro i civili ucraini, le violazioni del diritto internazionale, gli attacchi alle infrastrutture energetiche: ogni misura possibile e immaginabile è stata adottata per difendere Kiev dal ‘macellaio’ Putin, contro il quale in quei mesi sono stati coniati i più fantasiosi epiteti.
Vi ricordate? All’epoca si parlava di “risveglio europeo”, di una nuova stagione in cui il mondo umano e democratico, finalmente unito e compatto, avrebbe fatto da argine all’autoritarismo e alla violenza degli ‘orchi russi’. I valori europei dei diritti umani e della legalità internazionale, di cui i paesi UE si ergevano fieramente a baluardo, sono stati utilizzati in ogni dove e sono diventati pilastri del discorso ufficiale, rilanciato a reti unificate.
Beh, in un primo momento ha funzionato. Quando ho iniziato il mio lavoro di divulgazione, prima su Instragram e poi come giornalista e saggista, cercando di raccontare le radici profonde del conflitto russo-ucraino (che, a differenza della stragrande maggioranza dei commentatori dell’ultimo minuto, seguivo da ben prima del 2022), il clima era così polarizzato che ho ricevuto centinaia, se non migliaia, di insulti, minacce di morte, minacce di stupro e ogni forma di attacco pubblico o privato. Chi mi accusava di essere pagata direttamente da Putin, chi di ripetere i ‘bignamini’ della propaganda russa, chi di essere complice dell’invasore e di avere le mani macchiate del sangue ucraino: la follia e l’isteria collettiva è stata così spaventosa che sono state tante le volte in cui ho davvero avuto paura a parlare. Ma la cosa più spaventosa è che, così come questa ondata di odio e rabbia è arrivata, così è sparita altrettanto velocemente dal dibattito pubblico. Ecco perché è invece fondamentale, adesso, mettere in relazione le cose.
La rapidità con cui l’Europa ha risposto all’aggressione russa ha dimostrato che la volontà politica c’è eccome, ma solo e soltanto quando c’è convergenza con gli interessi strategici degli Stati Uniti. C’è ben poco di umanitario a guidare l’azione dei vertici di Bruxelles e dei governi europei: ciò che conta è ciò che è funzionale alla strategia statunitense. Isolare la Russia, rompere il legame Mosca-Berlino per contenere l’influenza dei russi in Europa, rompere il legame energetico russo-tedesco (e quindi russo-europeo), indebolire la Germania come forza trainante dell’economia europea e quindi indebolire l’autonomia politica tedesca, impedire alla Russia di diventare una potenza euroasiatica e confinarla, invece, esclusivamente al continente asiatico: è questo, e semplicemente questo, ad aver guidato l’azione statunitense ed europea.
La dimostrazione di ciò è che da ottobre 2023, ossia da quando Gaza è sottoposta a un’offensiva militare devastante che ha causato decine -se non centinaia- di migliaia di morti (la maggior parte dei quali donne e bambini), milioni di sfollati, ospedali distrutti, carestia, distruzione sistematica delle infrastrutture civili, l’Unione Europea è stata estremamente timida nel condannare Israele. Nonostante il massacro sia stato fin da subito denunciato da decine di giuristi, da relatori ONU e dalla stessa Corte Internazionale di Giustizia come un ‘possibile genocidio’, l’Unione Europea non ha assunto una posizione netta. Anzi, tutt’altro. Tra le azioni europee più degne di nota negli ultimi due anni troviamo: il rifiuto di chiedere un cessate il fuoco immediato nelle prime fasi del conflitto e la ripetizione della litania sul diritto di Israele a difendersi; la sospensione dei fondi a UNRWA, sulla base di accuse mai verificate, mentre la popolazione gazawi rischiava già allora una crisi alimentare spaventosa; il sostegno esplicito a Israele da parte di molti Stati membri, in particolare della Germania; la repressione interna delle proteste pro-Palestina, spesso bollate come ‘antisemite’ anche quando si limitavano a invocare diritti umani e legalità internazionale.
Il conflitto in Ucraina sparisce quindi dai media e dal racconto pubblico perché il doppio standard è talmente evidente che anche chi è più digiuno di politica internazionale si rende immediatamente conto che c’è qualcosa che non torna. E quel ‘qualcosa’ è che Israele è un alleato strategico degli Stati Uniti (e quindi dell’Unione Europea, dato che è un organismo privo di qualsivoglia autonomia in politica estera), i quali sono disposti a tutto, compreso bombardare l’Iran e sanzionare esponenti delle Nazioni Unite, pur di difenderlo.
Il caso più recente è quello di Francesca Albanese, avvocata e accademica italiana, dal 2022 Relatrice Speciale dell’ONU per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati. In questa funzione, ha pubblicato report dettagliati sull’illegalità dell’occupazione israeliana, sulle politiche di apartheid e sulle violazioni del diritto umanitario durante l’offensiva su Gaza ed è diventata una delle voci più autorevoli nel dibattito pubblico sulla situazione dei palestinesi nella Striscia, grazie alla sua monumentale opera di informazione e denuncia.
Il suo lavoro è rigoroso e in linea con i mandati previsti dalle Nazioni Unite. Eppure è diventata bersaglio di una campagna feroce di delegittimazione personale e politica, culminata con l’emanazione di sanzioni da parte di Israele e Stati Uniti. Le accuse sono (provate a indovinare?) antisemitismo, faziosità e propaganda. Ma a ben vedere, la colpa fondamentale di Francesca Albanese è essenzialmente solo una: applicare il diritto internazionale anche agli alleati.
Come ricorda il giornalista Paolo Mossetti, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella fu rapidissimo nel mostrare la sua solidarietà all’ex direttore di Repubblica, Molinari, quando fu contestato a un evento dagli studenti. Così come telefonò a Giorgia Meloni quando un utente qualsiasi insultò sua figlia Ginevra su X. Ma nel momento in cui una cittadina italiana, solo a causa del legittimo svolgimento del suo mandato presso le Nazioni Unite, viene sottoposta a sanzioni e a una campagna diffamatoria su Google finanziata dal governo israeliano solo perché fa il suo lavoro, nessuna istituzione italiana ha ancora ritenuto che sia il caso di mostrare solidarietà.
Ma se da un lato l’Europa si dimostra totalmente inconsistente, tanto che l’opinione pubblica dall’inizio del massacro di civili di Gaza è sempre più delusa e sfiduciata dalle politiche di Bruxelles, dall’altro sta cercando di riacquistare legittimità politica attraverso la guerra e la creazione di un nemico comune contro il quale compattarsi: la Russia. Un’invasione di Mosca in Europa viene raccontata come probabilissima e quasi imminente, tanto che è urgente aumentare la spesa militare al 5% del PIL, nonostante allo stesso tempo i media europei parlino di un esercito russo impantanato in Ucraina da più tre anni, che combatte con le pale e che fatica a conquistare anche solo qualche chilometro quadrato di terreno.
La crisi dell’Unione Europea non è solamente politica, è esistenziale. In mancanza di un progetto politico condiviso e alla luce dell’incoerenza mostrata agli occhi dei cittadini europei, l’unico collante per riacquisire legittimità politica sembra essere la minaccia esterna. In questo quadro, il sostegno all’Ucraina, pur legittimo sotto il profilo della solidarietà internazionale, è stato strumentalizzato non per difendere il diritto in sé, ma in modo funzionale a ridefinire il ruolo dell’UE come attore rilevante sul piano internazionale, in chiave però esclusivamente militare.
La guerra in Ucraina ha accelerato una trasformazione già in corso: la rinascita della politica dei blocchi militari come principale forma di organizzazione geopolitica. Da un lato, l’allargamento e il rafforzamento della NATO; dall’altro, l’emergere di alleanze alternative tra Russia, Cina, Iran e altri attori del cosiddetto “Sud globale”. Questa logica segna una rottura definitiva con l’illusione post-Guerra Fredda di un mondo in cui il diritto internazionale avrebbe dovuto progressivamente sostituire la forza. Siamo, al contrario, di fronte al ritorno brutale del mondo bipolare, di cui vediamo gli effetti in Ucraina e in Palestina.
L’Unione Europea, che avrebbe potuto proporsi come terzo polo autonomo, come stabilizzatore e come mediatore tra le due potenze USA-Russia (e nel Mediterraneo con la Palestina), ha scelto di schierarsi acriticamente con il blocco atlantico: il risultato è una subordinazione diplomatica e militare da cui non sembra esserci via d’uscita.
Ma proprio perché il mondo si sta ricompattando attorno a logiche militari diventa ancora più urgente difendere, ridefinire e promuovere il ruolo del diritto internazionale come base comune: un’Europa che rinuncia a questo compito non solo tradisce sé stessa, ma contribuisce enormemente alla destabilizzazione di intere regioni, allo scoppio di nuovi conflitti e al mantenimento di uno stato di guerra perpetua.
Insomma, l’Europa è morta a Gaza, ma non sarà la logica militare e il riarmo a salvarla. Così come non servirà a salvare gli ucraini e i palestinesi.
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Tradotto da Google: Ciao, il tuo saggio è ben scritto! Dal mio punto di vista, pur criticando con perspicacia i fallimenti diplomatici dell'UE e il suo allineamento strumentale con gli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti, evidenziando in particolare i doppi standard strategici dell'Unione tra Ucraina e Gaza, per affrontare efficacemente il decadimento sistemico che lei identifica, gli europei potrebbero dover guardare oltre la critica morale e i ricorsi giuridici internazionali. Questi non sono sufficienti quando le strutture sottostanti dell'UE hanno, negli ultimi trent'anni, consolidato una straordinaria centralizzazione del processo decisionale e dell'autorità fiscale, sottraendo potere decisionale a enti locali, regioni e persino governi nazionali.
Proprio come gli Stati Uniti e il Regno Unito, l'Europa ha subito una trasformazione strutturale in cui sistemi di governance partecipativa, un tempo variabili, sono stati sostituiti da strati tecnocratici e burocratici, spesso privi di una reale responsabilità democratica. Per andare avanti, gli europei potrebbero dover analizzare il loro sistema in termini di centralizzazione architettonica del potere, come si è evoluto dal Trattato di Maastricht a Lisbona in un apparato monetario-fiscale altamente centralizzato. Questo è fondamentale: sono necessarie riforme strutturali, non solo retoriche o giuridiche, per ripristinare l'agenzia, inclusa una vera agenzia locale, e il pluralismo istituzionale per impedire all'UE di continuare a essere un attore vuoto. Altrimenti, invocare il "diritto internazionale" potrebbe non solo non risolvere le crisi in atto, ma consolidare ulteriormente il potere tecnocratico e alienare i cittadini dalla governance partecipativa.